La Chiesa di S. Sebastiano
La chiesa sorge, presso la Cattedrale, in vico dei Sotterranei, una delle stradine nel cuore del centro storico che è anche uno dei luoghi più suggestivi e misteriosi della città di Lecce. Il nome della via rimanda alla presenza di stratificazioni archeologiche accertate: i famosi “sotterranei” appunto, venuti casualmente alla luce, studiati e sepolti. La fabbrica poggia le fondamenta su una preesistente cripta, probabilmente di età paleocristiana, dedicata ai santi Leonardo, Sebastiano e Rocco. Qualcuno riferisce, che in questa, siano state rinvenute le spoglie del protettore di Lecce S. Oronzo, primo vescovo della città. Vicenda suggestiva ma scarsamente documentata. La fonte più autorevole, sulla storia dell’edificio, rimane la “Lecce Sacra”, scritta nel 1634 dallo storico locale Giulio Cesare Infantino, che data la riedificazione dell’attuale fabbrica nel 1520. La dedica a San Sebastiano – patrono degli appestati- è dovuta alla grave epidemia di peste che in quegli anni minacciava queste terre.
La facciata dell’edificio si presenta a capanna, decorata da archetti pensili e da un bassorilievo, inserito nella parte alta del timpano, che raffigura “ la veronica” su cui è impresso il volto di Cristo, incorniciato da lunghi riccioli ritorti; opera di discreta fattura, come si può notare dal delicato tratteggio del volto e dalla cura minuziosa con cui è resa la capigliatura. Questa scultura è ascrivibile, per i rimandi ai Mandylion del nostro tardo bizantinismo, ad uno scultore attivo a Lecce intorno alla metà del XVI secolo. Al XVI secolo risale anche il portale che richiama nell’impostazione le tipologie del Riccardi, per la presenza di due colonne scanalate che sorreggono un fregio decorato con eleganti motivi classicheggianti.
In asse con il portale si apre una finestrella quadrata là dove è facilmente ipotizzabile un originario piccolo rosone. Nella parete laterale si leggono spie architettoniche di un primitivo impianto e alcune protomi zoomorfe con funzione di gocciolatoi.
La pianta è longitudinale con zona presbiteriale più ampia, preceduta da un arco trionfale su cui è inserito uno stemma cristologico, segno evidente di appartenenza della fabbrica ad una confraternita.
L’unico arredo superstite nella parete destra della zona presbiteriale è un comunichino,sormontato da un’ architrave finemente ornata con piccole testine di angeli. Nel centro un simbolo eucaristico, un calice, che allude alla funzione specifica dell’arredo. Da qui probabilmente le religiose ricevevano l’Eucarestia rimanendo pressoché invisibili anche allo stesso sacerdote. Nella parte bassa, di questo pseudo altare, è visibile lo stemma della famiglia Prato, una delle famiglie più nobili e antiche della città.
Le arcate, che arricchiscono le pareti laterali dell’unica navata, ospitavano un tempo affreschi ed altari: nelle prime, a sesto acuto, sono visibili due piccole sculture con volti di angeli; le altre, a tutto sesto scandiscono ritmicamente le pareti. In due di queste si fronteggiano i resti di due affreschi: la “Madonna degli Angeli che appare a S. Antonio e a S. Francesco” e una “Deposizione”. Nel primo viene rappresentato un topos dell’iconografia francescana e si riferisce alla visione che S. Francesco ebbe alla Porziuncola, narrata nella Legenda Maior da S.Bonaventura da Bagnoreggio. Si nota, in quest’ immagine, una particolare sensibilità dell’autore verso il paesaggio che, per l’impianto e per la stesura, rimanda ad esperienze venete.
L’altro affresco dell’arcata sinistra, si può far risalire alla fine del ‘500 e racchiude un enigmatico palinsesto di tre stratificazioni: dal più antico, emergono chiari frammenti di cornice, il cui disegno e cromia farebbero ipotizzare una Madonna in trono ( si spera che eventuali restauri potranno dare indicazioni più precise in tal senso); nel successivo troviamo una “Deposizione”. Questa ’immagine, impostata secondo schemi michelangioleschi, presenta il corpo di Cristo sorretto da angeli con in alto la figura della Madre che accoglie in grembo il figlio morto. Le lacune di colore sono i segni evidenti delle picconate che furono inferte all’ opera quando si volle ricoprire l’affresco. Dell’ultima stesura conserviamo solo piccole tracce di arriccio e di colore. Nel pilastro sinistro dell’arco trionfale un altro dipinto con la “Madonna del Carmine” ascrivibile, anche questo, al tardo cinquecento.
Al settecento, invece, sembrano risalire le decorazioni e le nicchie realizzate sulla parete di fondo sotto le quali doveva esserci la macchina dell’altare maggiore.
Verso la fine dell’500 in questo luogo e nel convento annesso, furono accolte le suore Cappuccine, ordine che si dedicava alla redenzione di donne con un passato dissoluto che, dopo il pentimento, entravano in comunità facendo voto di clausura. Sono ancora visibili le gelosie lignee, attraverso le quali le monache non viste, assistevano alle funzioni religiose.
A Napoli l’istituzione dell’ordine delle “Cappuccine Pentite”, da cui probabilmente dipende anche questo leccese, si deve ad una nobildonna spagnola Maria Lorenza Longo, moglie di Ioannes Llonc, cancelliere del re a Napoli. Si racconta che Maria, donna fortunata e felice, suscitasse l’invidia di una serva, che durante una festa cercò di ucciderla con del vino avvelenato, non morì ma restò paralizzata per anni. Un pellegrinaggio a Loreto, le permise di ottenere dalla Madonna il miracolo della guarigione.
Animata da profonda gratitudine verso la Vergine, vestì l’abito del Terz’Ordine Francescano e si prodigò alla cura degli ammalati.
Maria Lorenza Longo nel 1518 fu la fondatrice dell’Ospedale degli Incurabili e nel 1535 del Monastero di Santa Maria in Gerusalemme sempre a Napoli. In questa seconda istituzione accolse, coadiuvata da Maria Ajerba, San Gaetano e dai frati Cappuccini, le “peccatrici pentite”:. Tale iniziativa, venne estesa anche in altre città italiane. Nei conventi, istituiti dalla Longo, furono ospitate molte donne, che trovarono comprensione e protezione.
Gli avvenimenti partenopei dovettero avere una ripercussione anche a Lecce, infatti il monastero si modella su questo esempio.
Non abbiamo conoscenze sicure riguardo alla data di fondazione del convento salentino; a volere le Cappuccine a Lecce pare sia stato Fra’ Bernardino da Balvano, uno dei primi artefici della “Riforma dei Cappuccini” e autore nel 1553 di un trattato Lo specchio dell’ Orazione. E’ comunque certo che intorno al 1634 questa fondazione era pienamente attiva e contava un consistente numero di monache e novizie che dedicavano il loro tempo alla realizzazione di ventagli di carta. In un secondo momento alle “pentite” andarono ad aggiungersi anche le orfanelle; ad una delle quali, con una suggestiva cerimonia annuale, veniva assegnata una dote. Questo rito avveniva, significativamente, nel giorno della festa della Maddalena, evangelicamente descritta come una prostituta redenta.
Delle Pentite rimane oggi solo il nome, con il quale da molti la Chiesa, oramai sconsacrata, viene ricordata. L’importante testimonianza della loro presenza sta emergendo dagli affreschi situati presso il pilastro destro di sostegno all’arco trionfale. Qui ai piedi della figura di Gesù, raffigurato secondo l’iconografia dell’”Imago Pietatis”( il Cristo morto, nel sepolcro, con i segni evidenti delle ferite e gli strumenti della Passione) si notano le suore Cappuccine, con il loro caratteristico abito, in processione.
Sullo stesso pilastro è parzialmente visibile la scena, che si riferisce probabilmente ad un miracolo, ed ha per protagonista una Santa che indossa il saio francescano sotto il mantello. In basso, dalla calce che li ricopriva, sono emerse le figure di una suora in preghiera e gli zoccoli di due animali, forse due asini.
Dopo la chiusura del monastero, dovuta alle vicissitudini storiche e all’impoverimento dell’ordine a Lecce, gli immobili passarono nelle mani di privati: la fabbrica fu sconsacrata e diventò, come ricordano in molti, prima un’ autofficina e poi un negozio di antiquariato. Venne definitivamente chiusa ed abbandonata per oltre un trentennio fino al recupero che è in atto. Il convento, annesso alla Chiesa negli anni è stato completamente trasformato in un palazzo gentilizio con una classica facciata ottocentesca. Del primitivo impianto si conservano solo i resti del chiostro. Si aspetta il restauro completo della fabbrica per poter sciogliere i numerosi enigmi che l’attuale stesura sottende e riuscire così a chiarire episodi ed identità.
( Da uno scritto di L. Palmieri e G. Colaianni, maggio 2008 – fotografie di Gigi Nuzzo)